Le cere del Museo, recentemente restaurate, rappresentano una delle più ricche collezioni esistenti e rivestono un grande interesse storico-scientifico e storico-artistico.
Tra la fine del Seicento e la metà dell’Ottocento, i problemi di conservazione dei cadaveri, nonchè le difficoltà create dal clero e dai governanti al loro utilizzo a scopo scientifico, favorirono lo sviluppo della cosiddetta anatomia “artificiale”.
Modelli in cera e in altri materiali (legno, gesso, cartapesta) vennero utilizzati sempre più frequentemente per l’insegnamento della disciplina. La ceroplastica anatomica fiorì soprattutto con le scuole di Bologna e Firenze, le cui opere si diffusero non solo in Italia.
La collezione di cere anatomiche del Museo di Torino è composta da oltre 200 opere, distribuite in molte vetrine. Alcune di esse risalgono alla seconda metà del Settecento e in parte sono di fattura torinese. Fu però a partire dal 1815 che divenne particolarmente attivo a Torino un “Gabinetto di lavori in cera”, voluto dall’anatomista Luigi Rolando, che aveva appreso a Firenze la tecnica della ceroplastica anatomica. Le produzioni torinesi di quest’epoca sono dovute a Luigi Cantù e al figlio Giuseppe e seguono appunto la “tecnica fiorentina”, in cui anche le ossa venivano realizzate in cera, contrariamente ai modelli di tecnica bolognese che incorporavano ossa vere. Intorno al 1830 furono anche acquistati modelli prodotti dalle officine ceroplastiche di Firenze e di Napoli.
Durante la seconda metà dell’Ottocento la ceroplastica anatomica perse importanza in quanto nuove tecniche di preparazione e conservazione favorirono l’allestimento di preparati di anatomia “naturale”. Le cere anatomiche furono quindi considerate obsolete dal punto di vista scientifico e didattico.